Senza smartphone ci sentiamo nudi. Perché?

Removed di Eric Prickersqill

Il bel progetto fotografico Removed del fotografo Eric Prickersqill, nel renderci plasticamente presenza e assenza al tempo stesso del nostro vivere, porta a riflettere ancora una volta attorno al tema delle nuove tecnologie digitali. 

Ricordo un 
intervento di Zygmunt Bauman, al Festival dell’economia di Trento di qualche anno fa, puntare il dito contro consumismo e tecnologia corresponsabili nel tentativo di distruzione di moralità, famiglia, amore per gli altri, tempo libero, reciproca comprensione.

E' un fatto, la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo ci porta angoscia.
Ma come affrontarla?

La posizione di Bauman per cui sembra quasi che da una parte ci sia un essere umano con bisogni nobili di amore, dedizione, dall’altra un mostro che solo desidera consumare e chattare con lo smartphone, dico chiaramente non mi convince affatto. 
L’età dell’oro il passato e l’apocalisse il futuro... stiamo diventando burattini eterodiretti verso l’autodistruzione...
Ma davvero si stava meglio quando si stava peggio?
Vediamo punto per punto.

Bauman e la moralità mercificata.
La morale non è (né mai stata) niente di assoluto, è un codice di comportamento che gli esseri umani si danno per rispondere meglio ai problemi della vita. La moralità è (ed è sempre stata) una cosa mobile, adattabile, come l’intelligenza. Ci sono state epoche in cui la schiavitù,
l’apartheid, il colonialismo, la sottomissione della donna erano legali e morali. Poi (fortunatamente penso io) non più.

Bauman e la famiglia, l’amore, gli affetti.
Le “tradizionali” famiglie erano quelle dove le donne non potevano scegliere altro e dove tutti i componenti avevano un lavoro, compito, mansione, strettamente legato alla famiglia (contadina, artigiana, commerciante): perché il lavoro si tramandava di padre in figlio. Da quando questo legame della trasmissione del lavoro all’interno della famiglia si è spezzato o molto allentato (rivoluzione industriale, fabbriche, metropoli, ecc. fenomeno che dura da un secolo e che con la rivoluzione digitale rende nuovamente marcato il solco generazionale nativi/analfabeti digitali), ecco che le famiglie hanno cominciato a sfrangiarsi. Oggi potrà sembrare anche molto romantico pensare alla famiglia di un tempo, ma ci dimentichiamo del vincolo, della quasi impossibilità a scegliere altro, a fare altro, a essere altro, ci dimentichiamo che essa si reggeva non tanto su un senso di amore, afflato di generosa cura e reciproca comprensione affettiva. Ma sulle necessità di lavoro e distribuzione dei ruoli “produttivi”. Era una piccola azienda. Coi suoi padroni, caporali e servi.  

E arriviamo alla tecnologia, la grande imputata, che distrugge tempo libero, affetti e, al dunque, umanità. Ora Bauman dice chiaramente come 
oggi i beni non abbiamo più solo un valore d’uso, ma anche un valore simbolico, che non si acquista più un bene perché se ne ha bisogno, ma perché si ‘desidera’. Che se oggi usciamo senza cellulari ci sentiamo nudi”.
Allora cos’è questo desiderio, questa necessità impellente? Semplicemente follia, corsa forsennata verso ansia, incertezza e bisogno di reciproca incomprensione?  

Qualcosa di più dice Alessandra Borella quando parla di phubbing, descrivendo l’illusione di
possedere una rete di relazioni più ampia di quella effettiva e reale

Ma la domanda successiva che bisogna porsi è: perché?
Cosa ci spinge a desiderare una rete di relazioni più ampia di quella “effettiva e reale”?

Il mio punto di vista è che: dematerializzazione, virtualità, commistione tra spazio e tempo libero/lavoro, e il desiderio, anche compulsivo che ne deriva, di tutto ciò, non siano liquidabili come semplice degradazione dell’umanità, un tempo amorevole e “primaria”.
Ma siano  ascrivbili a quel processo tutto umano di ricerca di nuovi limiti dell’essere, naturale processo di quell’evoluzione il cui bivio centrale Leroi-Gourhan fissava con la nascita dello “strumento”. 

Ovvero, l’essere umano a un certo punto della sua evoluzione animale ha casualmente imboccato la strada dell’evoluzione attraverso lo strumento (esterno) e non più all’interno del proprio apparato biologico (allungando il collo come le giraffe, per intenderci). L’evoluzione del proprio apparato biologico, tuttora caratteristica principale di ogni altra forma vivente conosciuta, richiedeva tempi molto lunghi di adattamento. Mentre lo strumento risolve problemi legati all’esistenza molto più rapidamente. E per ciò (non solo, ma semplificando) è una strada per niente abbandonata dall’essere umano, che al contrario si è evoluto privilegiando nettamente questo approccio, per una maggiore probabilità di sopravvivenza della specie (che infatti ha raggiunto l’incredibile cifra di 7 miliardi).

Ora, l’evoluzione attraverso “lo strumento” porta a una esternalizzazione del sé (e del processo evolutivo) che raccontiamo come virtualizzazione (Pierre Levy). 
E la virtualizzazione ha in sé un inebriante, quasi “divino”, potere di moltiplicare esponenzialmente le nostre capacità di conoscenza (e presenza) del mondo

Onniscienza e onnipresenza possibili appunto grazie a questa “invenzione” del virtuale che contiene in sé il doppio costituito da reale e virtuale insieme, apparato biologico e strumento insieme, incarnazione e divino al tempo stesso. I “superpoteri” che questa evoluzione dello strumento, della virtualità, ci offrono rappresentano una spinta incredibile per l’essere umano, di superamento di certi limiti (un attimo prima solo terreni, legati ad una biologia per lo più ereditata, quasi priva di scelta).

E come lo strumento della scrittura ieri ci ha spalancato le porte della conoscenza (sganciandola dalla sola memoria ed esperienza concreta, quindi limitata, e portandola su un livello virtuale – scritto, esterno a sé, che molto più può, molti meno limiti ha), oggi l’evoluzione dello strumento digitale spinge rapidamente oltre il limite del qui ed ora, spalancando le porte dell’ubiquità.
L’essere non solo qui ed ora, ma anche ovunque simultaneamente.

Questo fa presagire l’attuale rivoluzione tecnologica del digitale (così come un tempo la scrittura rispetto alla conoscenza, che diventava infatti spinta all’onniscenza). 

Ecco allora come lo smartphone, oggetto che racchiude in sé le principali caratteristiche di questa frontiera (linguaggio e tecnologia) del digitale, diventa (grazie alle sue caratteristiche di informazione, simultaneità, interattività, mobilità) il simbolo di una nuova possibilità d’essere, più estesa della precedente, ubiqua.
Ed è per questo che, assaporandone più o meno inconsapevolmente il gusto, non vogliamo mollare la presa.
Descrivere tutto questo come mercificazione della moralità, ossessione consumistica e produttivistica, perdita dei bisogni e desideri ‘buoni’ quali l’amore per gli altri e la reciproca comprensione… a me sembra stare guardare il dito invece che la luna.


E’ piuttosto nella comprensione e nella partecipazione, critica e consapevole, a questo processo evolutivo che risiede il cammino autenticamente umano che ci è stato consegnato e possiamo consegnare alla vita.

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