Che cosa è andato storto con i sondaggi?


Che cosa è andato storto con i sondaggi? E cosa è andato storto con la scuola? La prima domanda se la fa ieri il New York Times. Perché sì, dopo la debacle totale dei sondaggisti nelle elezioni Usa del 2016 (e non parliamo del resto del mondo), dove nessuno aveva previsto nemmeno lontanamente la vittoria di Trump, anche quest’anno tutti i sondaggi hanno accusato errori di valutazione addirittura maggiori. Tutti. E così arriva ora il tempo dei perché, dei come mai: cosa si è sbagliato, quale dato andava ponderato meglio (l’eta, la laurea, il colore della pelle, ecc.), con la speranza che, riducendo le distorsioni del panel, del campione analizzato, i sondaggi riescano finalmente a fare quello che dovrebbero fare: predire i risultati con una certa affidabilità.
Impossibile, secondo me. E lo dico da anni, da quando ho cominciato a lavorare con società di ricerche di mercato cercando di aggiornare le loro tradizionali logiche di raccolta dati con quelle dell’era digitale: confrontare i dati sociodemografici, le interviste cati, capi, cawi, i mystery client, i focus group e via dicendo con i social media monitoring, gli analytics, gli insights, i big data.

Quello che non va dei sondaggi non è quanto siano o non siano bravi e accurati sondaggisti e metodi di analisi, comparazione e ponderazione dati.
E’ il concetto stesso di sondaggi ad essere sbagliato, ormai superato.

Il punto è che, nell’era digitale, non ha pù alcun senso misurare le intenzioni di voto.
Cosa te ne fai delle intenzioni (o meglio ancora delle dichiarazioni di intenzioni di voto), quando puoi tracciare i comportamenti? Cosa vuoi che le persone stiano lì a dirti di sé, quando sono abituate ad essere silenziosamente tracciate da cookies e algoritmi?
Ciò che si dichiara è ormai una autorappresentazione (piuttosto vezzosa), è puro artificio, finto come un selfie che fa di tutto per apparire una ‘istantanea’ a cattura della realtà, mentre al contrario è artatamente studiato, controllato, sistemato da filtri, effetti, basi, ecc.
Tempo fa leggevo di un interessante (e apparentemente buffo) studio che riusciva a distinguere con totale precisione un elettore repubblicano da uno democratico dalla foto dell’interno del suo frigorifero. Dimmi cosa mangi, cosa consumi, e ti dirò chi voti. E’ solo un esempio naturalmente. Ma oggi, se vuoi capire davvero cosa faranno le persone, non devi chiedere loro: cosa farai? Ma osservare cosa già fanno.
Ci sono gli strumenti per monitorare le azioni, e ancora ci affanniamo a capire come ponderare le ‘dichiarazioni delle intenzioni di azioni’?
Poi ci si chiede perché i sondaggi non ci azzeccano più.

Proprio come la scuola. Ci si chiede perché non funziona più, perché non solo non forma alla vita, ma perde sempre di più studenti e la loro attenzione, non cattura più la loro curiosità, la loro voglia di sapere, di capire. E ci si interroga sui programmi, su quali libri, quali lavagne, quali banchi, quanti docenti, quanti studenti, quanti metri quadri... e ultimamente quanta distanza... E niente, proprio come con i sondaggi non sarà da tutto questo che la formazione e l’esperienza evolutiva della conoscenza e del sapere troverà spazio in quella che ancora chiamiamo scuola. Pensare ancora che la scuola sia apprendimento, trasferimento di conoscenze, è dimenticare che nell’era digitale il paradigma del sapere si è rivoluzionato, è passato da ‘rappresentazione dell’oggetto della conoscenza’ (platonico) a ‘simulazione’, dall’osservazione del modello fatto a immagine e somiglianza della realtà (se accurato), allo stare direttamente dentro quella realtà.
Così è cambiato il nostro cervello, il nostro modo di apprendere, di vivere.
Da conoscenza a esperienza. E se esperienza dev’essere, come puoi pensare di chiamare eseperienza formativa ed evolutiva lo stare ore seduti in uno stesso posto, con la stesa postura, a non fare altro quasi che ‘ascolare’ una sola persona che parla? I neuroscienziati hanno dimostrato come il nostro cervello processi molto molto più velocemente i contenuti visual rispetto ad altri (testo, voce), ad esempio. Viviamo ormai continuamente esperienze immersive, in cui per lo più facciamo, invece di fruire passivamente. Ma niente, per scuola continuiamo a intendere una trasmissione/esperienza del sapere, della conoscenza, della crescita, fondata ancora sull’idea di rappresentazione invece che di simulazione. Che non solo è estremamente più lenta, ma meno esperienziale, meno efficace, più indiretta, lontana, astratta... DISTANTE!
Assisto, a volte sconcertata, ormai quasi intenerita, al surreale balletto di docenti e intellettuali che, in tempi di pandemia, si arrovellano sulla dad, continuando a insistere come solo lo stare in aula si possa definire ‘vera’ scuola e tutto il resto un pallido surrogato, quando quello che si fa a scuola è ontologicamente fondato sull’apprendimento a distanza (rappresentazione e scrittura). I veri intellettuali lo avevano capito già nel secolo scorso (Borges, Calvino...), ma niente, non basta.

Sondaggisti e docenti è più probabile che moriranno credendo si possa fare qualche ritocco al loro metodo tradizionale per farlo funzionare meglio, mentre il mondo se ne andrà tranquillamente per la propria strada, guardandoli come guardiamo l’oroscopo ogni tanto, più per tenerezza e rituale mattutino che perché ci aspettiamo realmente qualcosa di interessante in grado di aiutarci ad affrontare il presente ed il futuro.

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