Verità a posteriori (un altro senso del post-truth)


Troppe cose da conoscere in troppo poco tempo”, scriveva David Weinberger riferendosi a quella sensazione che accompagna l’uomo sin dall’antichità, ma sembra essersi ingigantita a dismisura con l’arrivo di Internet (come ricorda Mario Pireddu)

Alcuni dati:
  • il 90% delle informazioni prodotte dall’uomo nel corso della storia è stato generato negli ultimi 2 anni
  • il 10% di tutti gli esseri umani nati sono in vita in questo stesso momento.
Crescita della popolazione mondiale nel tempo (Wikipedia)

  • la nostra soglia di attenzione è scesa a 8 secondi (diminuendo di un terzo in soli 15 anni), inferiore a quella dei pesci rossi. E va diminuendo ancora.


Vi diranno che è colpa di internet, dello smartphone, di facebook, twitter e del multitasking...
No, è la causa è la crescita esponenziale del numero di umani (che ha aumentato a dismisura la quantità di informazione) e della velocità dei mezzi di mobilità e comunicazione (che hanno aumentato il nostro avere a che fare con essa). 

Immersi in tutto questo sapere, abbiamo bisogno di conoscerlo, processarlo, farci una mappa del mondo (come sempre) per sopravvivere.
Allora se l’informazione cresce, c’è solo un modo per stargli dietro, velocizzare il nostro modo di processarla. Ed è quello che stiamo facendo, riducendo il tempo che ci serve per valutarla.

Ma è qui che avviene un sorpasso qualitativo, non solo quantitativo (come direbbe Hegel? mutamenti puramente quantitativi si risolvono a un certo punto in differenze qualitative).

In pochi secondi non siamo in grado di valutare tutte le proprietà del messaggio che ci raggiunge, ad esempio se è vero o falso, ma non importa, per ora: quello che possiamo e ci serve fare, per districarci nel caos delle informazioni, è PER PRIMA COSA solo stabilire SE CI INTERESSA e ORA. 

Questo è tutto quello che facciamo nei pochi secondi di attenzione che diamo a ogni stimolo che ci raggiunge, la prima domanda a cui rispondere.
Se la risposta è sì, allora procediamo con la scansione dell’informazione e dunque ne valuteremo poi anche altre caratteristiche ad esempio la verità, l’attendibilità, la bontà o meno.
Se rispondiamo no, non c’è nemmeno bisogno di sprecare il tempo per vedere se è vera o meno.
Se anche ci interessa, ma non ORA, la lasciamo correre perché sappiamo che il digitale ha una tale capacità di memoria e acquisizione di informazione aggiornata che mi fornirà quando vorrò, non ha senso perdere tempo a valutarla ora (nello studio sui tempi di attenzione, il campione rivelava tra l'altro che chi viene bombardato dalle informazioni dei social media è in grado di individuare meglio degli altri che cosa vuole o non vuole memorizzare).

Ecco quindi perché il criterio di verità, così primario nell’era della scrittura, diventa secondario nel digitale: non che non sia importante, ma è una necessità che viene dopo, una verifica che faccio successivamente.
Prima, per ottimizzare il tempo in mezzo a questa enorme congerie di dati e sapere, meglio che selezioni secondo un criterio di efficacia

Mi piace giocare pensando che la locuzione post-truth (di cui oggi si parla tanto) sia più interessante di quanto non dica, ovvero stia soprattutto per “verità a posteriori”: cioè la verifico dopo la verità, prima ne valuto l’efficacia del ‘se mi serve qui e ora’.

Del resto, la definizione di "a posteriori" sembra proprio parlare di conoscenza, valore, efficacia :)

‹a posteri̯òri› locuz. lat. mediev. («da ciò che è posteriore») per indicare ogni conoscenza che dipende o proviene dall’esperienza. Giudicare, affermare a posteriori, dopo avere già preso conoscenza dello stato di una cosa o degli effetti che se ne sono avuti.

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